Si è scritto tanto, si è detto troppo, verità e supposizioni si sono intrecciate in una morte dai contorni oscuri, cupi, grigi. Come grigia era quella mattina di vent’anni fa, nella stanza posta sopra il garage della villa di Lake Washington Boulevard East, al 171, nella cittadina di Seattle (USA), quando alle 8 e 40 dell’otto aprile 1994 (i medici dichiareranno che era morto da tre giorni, il 5 aprile, ndr), adagiato in terra, vi era il corpo di Kurt Cobain. Nulla di retorico nel racconto di quei momenti, né tanto meno nei particolari di una scena che in molti fans rivivono ormai da tanti anni: un Remington M-11 con ancora i suoi colpi in canna, le siringhe, i cucchiaini, i pochi dollari in tasca e le immancabili Converse nere. Una lettera d’addio infilzata con una penna e sangue sul pavimento. In molti ritengono che questa scena, l’ultimo atto della sua vita, sia la vera sconfitta, la resa del genio elettrico e rivoluzionario del rock di fine secolo. Ma la domanda che da anni tormenta il mondo del rock, del grunge, e dell’alternative music è: suicidio o omicidio? Una risposta certa, oggi, ancora non c’è. E ogni tentativo di far chiarezza apre nuovi scenari di dubbi e di possibili falsità. Così come l’inspiegabile maledizione del 27, che aveva colpito anche personalità come Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin.
Si tratta certamente, non lo scopriamo noi, dell’artista che più di tutti ha caratterizzato la scena rock degli ultimi vent’anni; colui che ha portato il grunge nel grande palcoscenico mondiale, segnando un’epoca e uno stile che usciva dal contesto musicale e diventava vita, modo di essere e di comportarsi nel mondo, abbigliamento caratteristico di intere generazioni. Jeans strappati e maglie larghe in un corpo esile consumato da una vita vissuta a velocità forsennata, senza limitazioni, senza domande, e le indimenticabili Converse nere, simbolo di un’epoca. Genio fuori dalle regole ha regalato una ventata innovativa nella scena musicale mondiale, con la sua band, i Nirvana, ripercorrendo in poco tempo un percorso evolutivo come pochi artisti al mondo, aiutato dai due amici di una vita Krist Novoselic (bassista) e Dave Grohl (Batterista subentrato dal secondo disco). Dal 1989, anno del primo disco ufficiale, Bleach, i Nirvana di Cobain hanno vissuto un percorso in ascesa incessante, grazie anche a una preparazione tecnica di altissimo livello, con dischi come Nevermind (1991), l’album che raggiunge la prima posizione nella classifica Billboard 200 superando nelle vendite Dangerous di Michael Jackson, e dal quale poi esplode il grande successo per uno dei singoli rock più famosi al mondo, Smells Like Teen Spirit; Incesticide (1992) e In Utero (1993), fino a giungere alla maturità artistica dell’Unplugged in New York del 1994, che consacra la band nell’olimpo della scena mondiale. Negli anni successivi alla morte, molte ristampe e raccolte sono state pubblicate, a dimostrazione di un successo postumo come spesso accade nel mondo dell’arte musicale e non.
Kurt Cobain era e resterà sempre uno spirito libero, introverso e schivo anche con chi gli voleva davvero bene. Lui che aveva cancellato il successo dell’hard-rock (a torto o ragione, questo poco importa in questa sede, ndr), ha deciso, volontariamente o no, di non assistere all’altrettanto annientamento degli anni successivi che hanno raso al suolo non solo l’intera scena musicale di Seattle ma reso la vita assai difficile anche alla maggior parte delle band che a essi sono sopravvissute. Sarebbe interessante immaginare come sarebbe finita se Cobain fosse vissuto anche nel 2000 e negli anni successivi. Questo possiamo affidarlo solo all’immaginazione. Certo è che la scena illustrata da Dave Grohl, in una intervista a settembre 2013, sul magazine Rolling Stone, riassume perfettamente la personalità del re del grunge: «Ti ricordi l’ultima volta che hai visto Kurt? Cosa gli dicesti? Lo chiamai dopo l’incidente di Roma (a marzo del 1994 Kurt andò in overdose da alcool e pillole durante il passaggio italiano. I Nirvana tornarono a Seattle, dove Cobain morì il mese successivo, ndr). Gli dissi “Amico, ci siamo davvero spaventati. Non voglio che tu muoia”. Poi lo vidi subito dopo dal nostro commercialista. Lui usciva, io entravo. Mi disse “Ciao, come stai?”. E io “Ti chiamo”, e lui “Ok”».