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    Gli Stati Uniti fra emergenza sanitaria e sociale: le impressioni di una foggiana a New York

    Dalla discussa (e discutibile) gestione della pandemia alla questione delle discriminazioni razziali, prepotentemente riemersa dopo la morte di George Floyd. Lo sguardo su un Paese ora nell’occhio del ciclone fornitoci da Carmen, una giovane dallo scorso anno negli States

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    «I can’t breathe», «Non riesco a respirare». Le ultime, drammatiche parole pronunciate da George Floyd, il cittadino afroamericano assassinato lo scorso 25 maggio a Minneapolis nel corso di un controllo da parte della Polizia, spintosi terribilmente oltre, hanno fatto in breve tempo il giro del mondo. Parole che sono diventate il principale slogan di un articolato movimento di protesta che si è prima diffuso in tutti gli Stati Uniti, per giungere successivamente anche in Europa e in Italia (fra le tante, sabato 6 giugno ha avuto luogo una manifestazione nella vicina Bari, organizzata in piazza Umberto dall’Associazione degli Studenti Stranieri). L’omicidio di George Floyd ha fatto riemergere spinose questioni almeno parzialmente finite in secondo piano, quali discriminazioni, disuguaglianze e anche l’abuso di potere di certi appartenenti alle Forze dell’Ordine. «Quello che ho visto è terribile. Quell’uomo non avrebbe dovuto morire. Essere nero in America non dovrebbe essere una sentenza di morte», ha dichiarato poco dopo il misfatto Jacob Frey, il sindaco di Minneapolis. Quanto accaduto in Minnesota ha dinamiche terribilmente simili a diversi altri casi. Un esempio è quello di Eric Garner, cittadino anch’egli afroamericano ucciso durante un controllo di polizia a New York nel luglio del 2014. E proprio New York è stato uno dei centri dove l’indignazione e la protesta si sono fatte più vive. Una delle più sentite manifestazioni si è svolta partendo da Cadman Plaza Park (Brooklyn), il 4 giugno, presieduta da Terrance Floyd, fratello di George, e che ha visto 5 mila persone aderire pacificamente. Spirito pacifico che, purtroppo, non sempre ha contraddistinto chi è sceso in strada, con le cronache che hanno testimoniato diversi episodi di scontri, violenze, saccheggi e persino nuove vittime.

    La tensione sociale è inevitabilmente e pericolosamente salita, in un Paese che era già alle prese con un’emergenza sanitaria globale gestita, almeno nelle sue battute iniziali, in una modalità che ha sollevato perplessità e polemiche. Con l’obiettivo di provare a vederci chiaro, di avere un quadro di questa complessa situazione il più fededegno possibile, abbiamo contattato una conterranea che è negli Stati Uniti da poco meno di un anno. Si tratta di Carmen Petruzzi, giovane foggiana, a New York dallo scorso luglio con un visto studentesco (VISA) per un tirocinio aziendale nel settore ricerca nel turismo e nello sviluppo economico. Giornalista, ormai da settimane dal suo profilo Facebook aggiorna chi la segue con dettagliati e preziosi resoconti su quanto avviene nella complessa realtà che la circonda. Un uso del canale social che le ha permesso di accorciare le distanze fra New York, l’Italia e anche il suo territorio d’origine. Seguendo questa direzione, abbiamo chiesto a Carmen di fungere da ideale ponte fra i due continenti anche per noi. La ringraziamo per la cortese disponibilità.

    Carmen, che New York hai trovato al tuo arrivo e quanto, per forza di cose, è cambiata nel corso di questo anno?

    «Quando sono arrivata, New York era una velocista che spingeva per lo sprint finale. In tutti quei mesi non ha mai ceduto di un passo, anzi ha ingranato sempre di più trascinando tutte le persone che la vivono quotidianamente. La prima cosa che impari a fare qui è camminare velocemente, salire sulla prima metro, organizzare giornate di 14 ore fuori casa senza fermarsi mai e lavorare sodo e in team per raggiungere i goal aziendali e personali. Schedulare ogni attività per ridurre le distanze in tempi brevi è il segreto per vivere bene in questa città. Dal 23 marzo, però, New York ha perso di potenza e si è data ad una corsa di resistenza: lunga e in pianura. Il passaggio è stato brusco, dopo l’annuncio del governatore Cuomo, abbiamo tutti rallentato. La città si è svuotata di studenti americani e internazionali, di turisti, di pendolari dal New Jersey, degli impiegati, con importanti ripercussioni sociali ed economiche di cui avrete letto. Ci sono tutte le premesse per cui l’8 giugno il governatore Cuomo annuncerà l’ingresso di New York City, ultima di tutte le altre aree dello Stato di New York, nella fase 1. L’impressione è che nonostante sia diventata l’epicentro Covid-19 di tutta l’America con 16mila morti, la città ha solo cambiato passo ed è passata da velocista a maratoneta, più lenta ma con una migliore riserva di fiato per le fasi successive».

    Emergenza Covid-19: come ritieni che gli Stati Uniti l’abbiano affrontata? Meglio o peggio dell’Italia e del resto d’Europa? E dal tuo punto di vista oltreoceano, invece, come pensi che Italia ed Europa si siano comportate?

    «Gli Stati Uniti sono un Paese che copre sei fusi orari, 50 Stati ognuno con una propria giurisdizione e densità abitativa diversa (per farvi un esempio: la Carolina del Sud conta 5 milioni di abitanti, la sola città di New York più di 8 milioni). Fatta questa premessa, mi sento di dire che non è stata gestita nel migliore dei modi, soprattutto all’inizio quando Donald Trump continuava a dichiarare che era tutto sotto controllo, nessun virus poteva varcare i confini di Stato, mentre avrebbe potuto attivare fin da subito un protocollo preventivo. Io ero disorientata dal senso di tranquillità con cui i colleghi affrontavano le giornate a lavoro, ricordo che le uniche due persone a parlare costantemente del virus eravamo io ed una ragazza cinese. La situazione è cambiata in modo repentino e siamo passati da questo stato di ottimismo alle dichiarazioni dei virologi che prospettavano fra i 100 e i 200 mila morti. Come in Italia, anche qui ci sono state aree meno colpite, il Centro e l’Ovest (ad eccezione di Washington e California) ma non conosco nel dettaglio le politiche adottate singolarmente dai diversi Stati che sono entrati in lockdown in tempi e modalità diversi. Le polemiche non sono mancate anche qui, in Italia sono state filtrate dalle altre notizie. Secondo me è ancora troppo presto per congetturare chi in Italia e nel mondo abbia fatto le scelte più oculate. Questo è ancora il tempo della pandemia».

    Che clima si respira nella quotidianità della tua New York dopo l’assassinio di George Floyd? La tensione è alta anche nella “Grande Mela”?

    «Dopo più di una settimana di manifestazioni in tutti gli Stati Uniti, sembra che da ieri la città sia tornata sotto il controllo delle Forze dell’Ordine, anche se c’è da dire che subito dopo il 4 giugno molte zone della città erano più vivibili. C’è stata una partecipazione di massa, persino studenti internazionali o persone con visti hanno messo a rischio, soprattutto nei primi giorni, la permanenza in USA per manifestare. Instagram e Facebook sono stati i social che hanno connesso i gruppi, tutti hanno comunicato attraverso i social per diffondere le informazioni. Ricordo di aver letto che la New York University dava indicazioni su come partecipare alle manifestazioni in sicurezza. Gli scontri dei primi giorni sono stati molto violenti, tanto che il sindaco Bill de Blasio ha deciso di estendere il coprifuoco del 2 Giugno a tutta la settimana, così a partire dalle 8 di sera e fino alle 5 del mattino potevano uscire soltanto i lavoratori essenziali. La polizia davanti gli ingressi delle metro scoraggiava i manifestanti, eppure tanti di loro hanno continuato a rimanere in strada oltre l’orario consentito. Personalmente ho partecipato sabato scorso al raduno al Grand Army a Brooklyn. È stata una esperienza diversa da quelle vissute in Italia, ho trovato tante famiglie con bambini molto piccoli e molta umanità; spontaneamente i newyorchesi si sono organizzati e hanno portato acqua, cibo, mascherine, guanti, crema solare in grandi quantità per assicurarsi che tutti i manifestanti fossero ben equipaggiati. C’erano quasi 33 gradi centigradi e tutti indossavamo la mascherina, è stata davvero una fatica. Non posso dirti quali sono i sentimenti che si respirano oggi, ancora tanta delusione ma le proteste hanno portato a qualcosa, “defund the police” è stata una delle richieste ascoltate anche qui. I manifestanti non hanno chiesto di cancellare i finanziamenti ma investire nell’assistenza psichiatrica e nell’housing, aumentando i programmi di aiuto comunitario e di contrasto ai diversi tipi di violenze, ciò significa riconoscere che criminalizzare le dipendenze e la povertà, effettuando 10 milioni di arresti all’anno e l’incarcerazione di massa, non ha fornito la sicurezza pubblica. De Blasio pare aver colto la sfida e il 1° luglio porta al tavolo una riduzione dei fondi destinati al New York Police Department, da reinvestire nel sistema sociale».

    Razzismo e altre tipologie di discriminazioni sono, a tuo modo di vedere, problemi purtroppo ancora vivi nel tessuto di quel Paese? Se sì, quanta responsabilità ha anche la politica?

    «La storia americana insegna che una guerra civile persa dai Sudisti non è bastata a mettere la parola fine alla questione degli schiavi di colore che per anni e anni, pur liberi, non sono stati accettati dai suprematisti bianchi. Un secolo dopo gli americani di colore ancora si battevano in piazza per chiedere gli stessi diritti dei bianchi. Oggi le cose non sembrano così diverse e non si tratta soltanto del caso di George Floyd, ma di un sistema democratico che resta classista e chiuso. Questi sono i giorni in cui più che mai dovremmo fare come l’antropologo Marco Aime e chiederci: chi controlla il controllore? La mobilità sociale esiste ma non basta perché il primo passo nella lotta alla discriminazione razziale consiste nell’ammettere che questa esiste sul piano strutturale, istituzionale e individuale. Un tema interessante che in Italia non è ancora stato sviluppato riguarda i razzismi dei bianchi e ciò di cui non si parla abbastanza, decolonizzazione culturale. Sì, la politica c’entra sempre».

    Per concludere: questa esperienza oltreoceano ha cambiato, anche in minima parte, il tuo approccio, il tuo punto di vista sull’Italia? E se sì, in meglio o in peggio?

    «Tutte le esperienze di vita, e non solo quella di New York, hanno cambiato il mio punto di vista e mi hanno permesso di indossare nuovi occhiali per leggere l’Italia e Foggia in un’ottica diversa, sempre nuova. In tanti sognano New York come la città della svolta e hanno ragione, io per prima ho lavorato e rinunciato a tanto per venire qui. Non ci sono paesi o città più fortunati di altri, esistono comunità che credono e portano avanti progetti, individui che smuovono montagne e realizzano sogni. Tutte le persone con cui ho parlato hanno un chiaro progetto di vita e sanno cosa vogliono e come ottenerlo, noi italiani spesso non riusciamo a inquadrare i nostri desideri o peggio ancora ci accontentiamo e li dimentichiamo. Dal 2008 non sento che parlare di Italia in crisi ed è arrivato il momento di cambiare passo. Se finora abbiamo corso con uno scafandro su una spiaggia assolata, adesso è tempo di liberarci di tutta quella ferraglia e cominciare a correre. Molto veloce».

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