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    La gioventù rubata dalla malagiustizia, Giuseppe Gulotta ha raccontato la sua storia a Cerignola

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    «Ai miei genitori Caterina e Baldassarre, che non mi hanno più visto libero, a mio nipote Riccardo, che mi vedrà sempre libero». È con la dedica contenuta nel libro che ripercorre la sua odissea giudiziaria («Alkamar-La mia vita in carcere da innocente», scritto con Nicola Biondo per Chiarelettere) che ha inizio l’incontro che Giuseppe Gulotta ha tenuto a Cerignola, ospite della Parrocchia di Sant’Antonio da Padova nella serata di venerdì 3 dicembre. Oggi è un uomo di 64 anni, forte, sereno e con una grande famiglia attorno a dargli tanto amore, ma quando ne aveva appena 18 la sua esistenza è stata travolta dall’imponderabile.

    Tutto ha inizio nel 1976, precisamente il 27 gennaio. Ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, vengono assassinati nel sonno a colpi d’arma da fuoco nella casermetta “Alkamar” della stazione dell’Arma dei Carabinieri. Nei giorni successivi sono battute diverse piste e una di queste conduce ad un carrozziere di Partinico (Palermo) considerato vicino agli anarchici, Giuseppe Vesco, fermato a bordo di una macchina rubata ed in possesso di una pistola dello stesso tipo di quella utilizzata dai carabinieri: si scoprirà successivamente essere un’arma rubata proprio in quella caserma. Dopo un lungo interrogatorio, Vesco ammette il suo ruolo nell’omicidio chiamando in causa dei suoi amici, fra i quali Giuseppe Gulotta. Gulotta sarà prelevato in serata dai carabinieri di Alcamo, con ancora gli abiti da lavoro addosso. Una volta condotto in caserma, viene ammanettato ad un termosifone e picchiato con violenza: «Ad ogni ‘Non so nulla, non c’entro nulla’ partivano schiaffi e pugni», ricorda durante l’incontro. I maltrattamenti e le torture continuano fino a tarda notte, con l’obiettivo di estorcergli in qualsiasi modo una confessione. L’agghiacciante verità inizierà ad emergere solo trent’anni più tardi. Un ex brigadiere del nucleo antiterrorismo rende noto in un interrogatorio che Vesco, subito dopo l’arresto, fu condotto in una casermetta di campagna e sottoposto alle più feroci torture. Lo stesso Vesco, tempo dopo, viene trovato morto impiccato ad una grata dell’infermeria del carcere di Trapani. Avendo però una sola mano, perché l’altra gli era stata amputata, è un mistero ancora oggi la dinamica del suicidio. Da qui ha inizio per Gulotta un’odissea giudiziaria e carceraria, fatta di abusi, violenze e prove mendaci che lo portano ad ingiuste condanne, che durerà esattamente 36 anni, 22 dei quali trascorsi in carcere da innocente. Sull’incubo viene scritta la parola ‘fine’ soltanto il 13 febbraio 2012 quando, dopo un lungo iter di revisione del processo, la Corte d’Appello di Reggio Calabria assolve Giuseppe Gulotta con formula piena.

    «Da dove si inizia a raccontare una storia così tanto lunga?», confida con umiltà a lanotiziaweb.it. «Ad un ragazzino, in particolare quando va a scuola ad imparare l’essenziale della vita, direi di rispettare le leggi e tutto ciò che è giusto rispettare». Da ragazzo aveva il sogno di entrare in Guardia di Finanza, far parte di quello Stato da cui, per le malefatte di mele marce incontrate sul suo cammino, è stato tradito: «Continuo a credere nelle Istituzioni, non ce l’ho con loro malgrado tutto. Certo, in questa storia ci sono stati magistrati che mi hanno condannato senza avere prove vere contro di me. Ma va detto anche che ci sono stati magistrati che invece mi hanno dato l’assoluzione piena, che hanno capito che in questa storia non c’entravo nulla e hanno raggiunto un verdetto a me favorevole». Un importante sostegno in questo tortuoso percorso è stato la fede: «Nella mia storia ci sono stati tre preti. Il primo è il cappellano del carcere di Trapani che mi è stato molto vicino, il secondo è un prete che ha seguito i miei figli a Firenze, quando non ci sono stato dal 1990 in poi, e un terzo nella mia parrocchia che mi ha dato sostegno per affrontare tutta la revisione del processo. Questa storia mi ha fatto capire quali siano lecose importanti: la famiglia, il lavoro, la speranza e la fede. Queste quattro cose, tutte assieme, fanno tanto». Si giunge al messaggio che Gulotta spera di lasciare con questo incontro: «Voglio far capire alle persone che purtroppo una storia come la mia può succedere a chiunque. Io ci sono entrato tramite una chiamata di correo. Pur cercando di dire che non c’entravo nulla, gli inquirenti purtroppo hanno falsato le varie prove e i magistrati non lo hanno capito».

    A voler far giungere forte questo messaggio è anche il parroco, don Carmine Ladogana: «Quest’anno, in occasione del Sinodo, abbiamo sentito che dobbiamo imparare a raccontarci ed ascoltarci. Ho ritenuto di far raccontare a Giuseppe una storia inusuale. È inusuale perché passare 22 anni in carcere da uomo innocente non è storia di tutti i giorni. Però, nello stesso tempo, questa storia ci ricorda che ce ne sono tante altre non raccontate, fatte di ingiustizie e mancati riconoscimenti. Allora vogliamo vivere questo inizio del cammino sinodale, come il Vescovo ed anche il Papa ci hanno indicato, ascoltando e comprendendo che anche noi siamo chiamati a dare delle risposte, ma soprattutto a saper ascoltare e prendere atto che l’ingiustizia vive tra di noi. Non solo anni in carcere passati da innocenti, ma anche tante piccole ingiustizie quotidiane che forse mettiamo sotto il tappeto perché non vogliamo vedere». Da questo assurdo caso di malagiustizia Giuseppe Gulotta ha dato vita ad una Fondazione (fondazionegiuseppegulotta.it) in sostegno di altre persone vittime di ciò che vissuto sulla sua pelle, finanziata investendovi parte del risarcimento che lo Stato gli ha versato per ingiusta detenzione. La sua vicenda è divenuta anche un’opera teatrale, dal titolo “Un granello di sabbia”. Infine, non manca un pensiero rivolto ai due giovani carabinieri assassinati nel ’76 ed alle loro famiglie: «Il rammarico è che la mia assoluzione ha fatto giustizia solo a metà, perché non ci sono ancora i nomi dei colpevoli di questo assassinio».

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