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    L’accoglienza come impegno civile e morale, la testimonianza di don Carmelo Rizzo a Cerignola

    Il parroco di Lampedusa è stato ospite della Parrocchia di Sant’Antonio da Padova, raccontando a cuore aperto la difficile realtà che assieme agli abitanti dell’isola del Mediterraneo vive e affronta quotidianamente in prima linea

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    L’inestimabile valore della missione di un giovane sacerdote e della comunità che lo affianca è stato al centro della consueta serata culturale, in prossimità dell’Immacolata Concezione, a cui ha dato vita quest’anno la Parrocchia di Sant’Antonio da Padova di Cerignola, lunedì 5 dicembre. Ospite della comunità parrocchiale retta da don Carmine Ladogana è stato il parroco di Lampedusa don Carmelo Rizzo, in un incontro dal titolo “Accogliere: Voce del verbo AMAre”. Il tema affrontato è di stretta e drammatica attualità, quello dei flussi migratori verso le nostre coste e della scia di morte che troppe volte si lasciano dietro. Spesso dai telegiornali sentiamo definire il Mediterraneo come un immenso cimitero, altrettanto spesso questo delicatissimo problema diventa oggetto di un dibattito politico che finisce per sfociare più nella becera propaganda che nel desiderio concreto di venirne a capo. In tutto questo c’è una situazione che continua a precipitare, come anche la cronaca delle ultime ore ci dice. Da gennaio ad agosto 2022 sono stati registrati nelle acque del Mediterraneo 310 morti e 851 dispersi, per un totale di 1161 persone (fonte: elaborazione della fondazione Openpolis su dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, OIM). Il Mediterraneo è la direttrice lungo la quale arrivano la stragrande maggioranza dei migranti nel nostro Paese e Lampedusa rappresenta uno dei principali approdi.

    Per far luce su cosa significhi affrontare nel quotidiano, e in prima linea, un’emergenza di questa portata, non c’è testimonianza più autorevole di quella del parroco dell’isola. «L’accoglienza è un valore vitale, specialmente nel posto in cui ci troviamo – afferma don Carmelo Rizzo a lanotiziaweb.it, partendo da quell’“ero forestiero e mi avete accolto” contenuto nel Vangelo di Matteo -. L’accoglienza si gioca in questo frangente in cui la vita è messa a dura prova e a volte a serio rischio. Accogliere in determinate circostanze non è solo un dovere civile ma diventa un dovere morale, indipendentemente dalla fede che professiamo. Anche al di là della fede, nell’accoglienza tutti sono presi in gioco. L’accoglienza è qualcosa di vitale: va curata, va organizzata e va anche sostenuta». Sul significato della sua missione e su come anche la sua comunità se ne sia fatta carico, don Rizzo sottolinea: «Essere parroco a Lampedusa non è semplice, è una missione molto particolare. Significa essere al centro di una comunità che è stata molto provata nel tempo e nella storia da tutti questi sbarchi. È una comunità che ha bisogno di vicinanza. Poi ci sono le persone che arrivano, che hanno diritto ad essere accolte. Spesso fare accoglienza a livello civile o militare è come occuparsi di numeri. Quello che noi facciamo è chiedere a queste persone, appena arrivano, il loro nome. Mi dicono che io sia uno dei pochi a farlo, che dalla gente sono considerati come profughi, emigrati, esiliati e altro. È bello per loro sentirsi chiamati per nome, un piccolo gesto che può fare tanta differenza».

    Sono tante le drammatiche vicende umane con le quali il parroco di Lampedusa si è interfacciato, alcune delle quali lo hanno profondamente segnato: «Purtroppo nell’ultimo periodo sono avvenuti tanti sbarchi che hanno portato a delle tragedie. Spesso mi capita col mio ministero di stare a contatto con la morte. Vedere però bambini morti, neonati morti carbonizzati è qualcosa che segna per la vita. Sono immagini che restano impresse e che non potrò mai più dimenticare». In conclusione, don Rizzo fornisce il suo punto di vista su quello che dovrebbe essere il ruolo dell’informazione su questo tema: «L’informazione ha dei protocolli standard, non segue realmente quello che avviene. Ad esempio, una cosa che non emerge mai è chi cura i salvataggi. Non si parla mai di chi se ne occupa, del Corpo della Guardia Costiera. Loro sono i primi ad avere contatto con queste persone: persone che muoiono o persone che chiedono aiuto. A volte si possono aiutare, altre volte meno. Succede che mi chiamano per avere un conforto, visivo, di tatto o di ascolto. Vedere un giovane della Guardia Costiera in lacrime, perché non ha potuto salvare una vita, perché costretto a scegliere se salvare un bambino o una persona adulta, è una di quelle situazioni tragiche che nessuno viene a raccontare. Sarebbe invece qualcosa di importante, da veicolare e far capire».

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